
4 aprile del 1944 – la scoperta del campo di Auschwitz
Fra i 3.479 fascicoli della serie “Air 27 – Operations Record Books, Squadrons” dell’Archivio Nazionale di Londra c’è la documentazione di una missione aerea del 4 aprile 1944, classificata con la sigla 60PR/694. Una missione destinata ad acquisire fotografie aeree di un obiettivo da bombardare e distruggere nella Polonia occupata dal Terzo Reich.
Sembra una come tante altre, una delle migliaia della Seconda Guerra Mondiale: nel fascicolo della missione – la numero 694 del 60° Photo Reconnaissance Squadron della South African Air Force (SAAF) – non c’è niente di particolare, a prima vista. Si trovano il piano di volo, la relazione di servizio del pilota e del suo navigatore, i dati tecnici riferiti al viaggio, le attrezzature impiegate, la descrizione delle difficoltà che l’equipaggio ha incontrato. Si è trattato di un volo di ricognizione fotografica.L’aereo quel giorno è partito dal campo di San Severo, uno degli aeroporti del “Foggia Airfield Complex”, il complesso aeroportuale militare della provincia di Foggia.

Al ritorno, oltre alle foto dell’obiettivo da bombardare, l’equipaggio ha portato a casa le prime fotografie della storia fatte al campo di concentramento di Auschwitz. Al campo di sterminio per eccellenza.
Come è noto, Auschwitz era un complesso di tre lager: Auschwitz I (“Stammlager”, lager principale), Birkenau (Auschwitz II) e Monowitz (Auschwitz III). In questo complesso c’erano anche trentanove sottocampi di lavoro. Monowitz, in particolare, era l’ultimo “pezzo” ad essere realizzato, distante qualche chilometro dagli altri due lager, costruito a ridosso del grande impianto Buna-Werke per la produzione di gomma sintetica della compagnia tedesca I.G. Farben. Era il più grande stabilimento chimico del mondo. Proprio nel 1944, la I.G. Farben utilizzava il lavoro di oltre ottantamila deportati.
Gli anglo-americani erano al corrente dell’esistenza del grande impianto Buna-Werke e pur avendo qualche dubbio in merito alla sua effettiva funzione avevano comunque deciso di bombardarlo, di distruggerlo. Dall’altra parte del “fronte”, le cose andavano piuttosto bene. La Campagna d’Italia procedeva con successo e nella prima grande pianura che gli anglo-americani avevano trovato, il Tavoliere, erano attivi numerosi aeroporti: decine di piste grazie alle quali la 15^ Air Force americana riusciva ad arrivare con i suoi aerei oltre i Balcani, fin sopra la Polonia occupata.
Negli scali foggiani operavano aerei americani, italiani, inglesi e, aggregati agli inglesi, c’erano anche le forze aeree dei Paesi dell’Impero Britannico. Tra questi, il Sudafrica. Nell’aeroporto di San Severo, in particolare, era di stanza il 60° Squadron di Charles Barry ricognizione fotografica della South African Air Force. Aveva già operato nel Nord Africa, sempre inquadrato nelle forze alleate e alle dirette dipendenze dei britannici e, dal febbraio del ’43, i suoi piloti volavano su moderni e veloci De Havilland Mosquito IX. In quei mesi il giovane pilota Charles Barry da Johannesburg fa coppia con il navigatore Ian Mc Intyre, da Città del Capo. Il loro lavoro consiste nel decollare col Mosquito, volare a una velocità di circa settecento chilometri orari grazie ai due robusti motori Rolls-Royce Merlin, raggiungere gli obiettivi militari e fotografarli. L’aereo non ha armamenti ma monta potentissime attrezzature fotografiche.


La mattina del 4 aprile del 1944, l’ordine di servizio per loro è chiaro: la missione di quel giorno prevede un lungo volo fino ai cieli della Polonia meridionale per fotografare con la massima precisione possibile la grande fabbrica tedesca I.G. Farben di Monowitz. l Mosquito ha sulla carlinga lo stemma del 60° squadrone SAAF e, bene in evidenza, il motto “Accipimus et damus”; si stacca dalla pista di San Savero, fatta con delle grelle americane, in tarda mattinata. Un volo solitario, senza scorta.
Dopo qualche ora Barry e McIntyre sono sull’obiettivo, sulla “verticale” della fabbrica I.G. Farber. Scriverà Charles Barry nel 1989, quarantacinque anni dopo: “Se mi ricordo bene, io e Ian ci avvicinammo all’obiettivo da fotografare volando da ovest verso est e lui mi avvertì che il portello della macchina fotografica non funzionava a dovere. Le due lenti focali erano state montate in tandem per assicurare una copertura laterale sovrapposta, il che permetteva alle macchine fotografiche da 20 pollici di riprendere un’area di circa 5 miglia. Dovevamo fare in fretta poiché il nostro aereo di ricognizione era disarmato e correvo il serio rischio di essere intercettato dal nemico. Impegnarci in un secondo giro di ricognizione, dunque, sarebbe stato pericoloso. Ciononostante, invece di tornare indietro, decidemmo di avvicinarci nuovamente all’obiettivo: volevamo essere sicuri che le macchine fotografiche coprissero la zona. Ian lasciò la macchina fotografica in modalità di ripresa per un tempo più lungo del solito e penso che fu proprio questa corsa supplementare, da est verso ovest, che consentì di riprendere particolari di quel campo di concentramento che in seguito sarebbe stato conosciuto come Auschwitz”.
Dopo poco più di cinque ore dalla partenza, il bimotore di Barry e Mc Intyre tocca terra, a San Severo. Nel briefing di fine missione i due spiegano che gli aerei nemici avevano intercettato il Mosquito, senza tuttavia attaccarlo e che, tra l’altro, l’aereo aveva avuto durante il volo qualche problema all’impianto elettrico. Dalle foto sviluppate, gli analisti militari non riescono immediatamente ad individuare con esattezza il campo di concentramento.
Tuttavia viene richiesto un supplemento fotografico, sempre affidato al 60° squadrone della SAAF. I Mosquito tornano così nei cieli di Monowitz il 31 maggio. Quel giorno, nel campo, le autorità SS mettono insieme quaranta chili d’oro e metallo bianco ricavato dai denti artificiali tolti agli ebrei uccisi tra il 16 e il 31 maggio. Una terza missione di ricognizione aerea viene effettuata il 26 giugno: da circa diecimila metri sopra Auschwitz, i Mosquito riprendono la fabbrica, i tre campi del complesso e, nei dettagli, i forni, le camere a gas, il raccordo ferroviario.
A luglio anche gli aerei del 5° Gruppo di ricognizione fotografica della 15^ A.A.F. ripetono la missione. Ad agosto i “Liberator” e le “Flying Fortess” della 15^ A.A.F. bombardano l’I.G. Farben. Nell’attiguo campo di Monowitz, in quei mesi c’è anche il futuro Premio Nobel Elie Wiesel, che scriverà in seguito: “Non avevamo più paura della morte, in ogni caso, non di quella morte. Ogni bomba ci ha riempito di gioia e ci ha dato nuova fiducia nella vita”.

Un altro deportato, Stanisław Kłodziński, in un messaggio segreto del 30 agosto 1944 indirizzato a Teresa Lasocka, scrive: “Nel nostro campo il bombardamento non ha avuto conseguenze, ma Buna è un cumulo di macerie, cosicché la produzione di carburo è limitata. Tra i detenuti vi sono stati alcuni morti e feriti“.
E a settembre, il 13, i bombardieri in azione sono ben 96: dalle 11,17 alle 11,30 sganciano centinaia di bombe sulla fabbrica. Il 21 dicembre è il giorno dell’ultima missione di ricognizione fotografica del ’44, effettuata tre giorni dopo l’ennesimo bombardamento e l’obiettivo dei fotoricognitori del 60° Squadrone SAAF non è solo quello di verificare i danni alla fabbrica: raccolgono ulteriori immagini dei lager.
Aggiungerà in seguito Barry, riferendosi alla missione del 4 aprile: “In realtà noi non avevamo il minimo sospetto che il campo di prigionia si trovasse proprio lì. Fu solo nel 1979, dopo la pubblicazione del rapporto Holocaust Revisited, che io e i miei colleghi del 60° Squadrone capimmo di avere contribuito, senza saperlo, all’individuazione del campo di Auschwitz”. Infatti nel ’79 due analisti della CIA, Dino Brugioni e Robert Poirier, recuperano le pellicole fotografiche sviluppate nel 1944 nelle strutture del “Foggia Airfield Complex” (pellicole nel frattempo versate negli archivi di Washington della Defense Intelligence Agency), ristampano le foto e le analizzano con tecnologie che nel ’44 non erano disponibili; pubblicano uno studio che provoca molte polemiche sulla mancata decisione degli alleati di bombardare almeno la ferrovia utilizzata dai tedeschi per portare i prigionieri nel lager.
Nello stesso anno, il presidente degli Stati Uniti d’America, Jimmy Carter, consegna a Wiesel in una cerimonia ufficiale i negativi originali delle foto scattate dai sudafricani di stanza nell’aeroporto di San Severo. E’ il 24 aprile del 1979 e Wiesel ricevendo il materiale, afferma: “L’evidenza è davanti a noi: il mondo sapeva e ha mantenuto il silenzio. I documenti che lei, signor Presidente, mi ha consegnato, testimoniano in tal senso”.
Una polemica ricordata poi nel 1999, anno in cui la decisione di non bombardare Auschwitz entra nel dibattito sui bombardamenti nel Kosovo. Nel 2000 il regista Stuart G. Erdheim realizza il documentario “They looked away” e sostiene la tesi secondo la quale già con le foto a disposizione nell’estate del 1944, gli alleati avrebbero potuto bombardare il complesso di Auschwitz e distruggere forni e camere a gas. E’ mancata, sostiene Erdheim, la volontà politica di fermare lo sterminio. Perché le foto, le foto delle missioni dei Mosquito del 60° Squadrone SAAF, contenevano informazioni utili per una azione mirata, secondo il regista e secondo gli esperti intervistati per il documentario.
Il mondo sapeva, quindi, e secondo molti gli angloamericani avrebbero potuto bombardare già dopo aver stampato quelle prime fotografie scattate per caso, il 4 aprile del 1944, era martedì, da Charles Barry e da Ian McIntyre, partiti da San Severo. McIntyre, morto negli anni ’60 a Città del Capo, non ha mai saputo che quel giorno nei cieli di Monowitz, forse anche a causa del non corretto funzionamento di una delle due macchine fotografiche del Mosquito, per primo ha avuto sotto i piedi uno dei peggiori incubi del genere umano.
Luigi Iacomino

