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“Il Cicerone Abramo”: tra storia e folklore della fortezza di Lucera

Tra le pagine della Lucera di inizio Novecento, si fa strada la figura di Abramo, il pittoresco custode della fortezza di Lucera. Il racconto, tratto da un articolo del Frizzo datato 10 aprile 1909 e segnalato da Massimiliano Monaco, dipinge Abramo come un personaggio istrionico, capace di trasformare una visita tra le rovine in un viaggio intriso di umorismo e saggezza popolare.

Abramo, accompagnato dal suo fedele cagnolino, accoglie i visitatori con teatralità, illuminando la scena con una lampada a olio e introducendoli a una collezione di teschi, evocando mistero e curiosità. Attraverso le sue parole, condanna la guerra, definendola una “brutta cosa” che spezza vite innocenti. La sua narrazione, seppur semplice, si intreccia con riflessioni antimilitariste e dettagli storici del Castello.

La sua frase più celebre? “Signurì dateme nu cafè”, pronunciata con tono leggero mentre descrive i segreti acustici delle mura della fortezza. Questo semplice gesto riassume l’essenza del personaggio: un guardiano della memoria storica, capace di intrattenere con arguzia e un pizzico di teatralità.

Alessandro De Troia

L’articolo de Il Frizzo del 4 aprile 1909 segnalato da Massimiliano Monaco:

MACCHIETTE LUCERINE
Il “Cicerone” Abramo

Non vi parlerò, o lettori, dell’antico patriarca, perché non ho alcuna voglia di presentarmi a magistrati, con tanto di berrettone fioccato in testa, per rispondere di plagio. Di plagio? Sì, sì: per aver copiato dal canto V della Genesi, poema di un illustre poeta, a cui piacque vivere all’ombra dell’ignoto e che, a tempo debito, fece ridere l’intera cittadinanza lucerina con le sue… stravaganze.

È mia intenzione, invece, di parlare del custode del nostro diruto Castello Svevo, il quale ripete una sua frase prediletta, per quanto stereotipata, ad ogni galantuomo che si degni di visitare i ruderi del vecchio maniero.

Abramo, non appena scorge dal suo posto di vedetta una persona autorevole, che s’avanza verso il Castello, corre ad accendere una lampada ad olio in una cameretta dove, a guisa di oggetti in un museo, sono allineati una ventina di teschi, tratti dalla fossa di li impisi. E perché s’interessa tanto dei teschi? Per togliere ai visitatori qualche soldino in suffragio delle anime del Purgatorio, direbbe qualche maligno. No! Io rispondo io. Ed allora? Lascio a voi, o lettori, l’arduo compito di spiegare l’enigma… Io passo oltre.

Il custode, portando la mano al berretto, saluta il visitatore, mentre il suo cagnolino scodinzola, persuaso, forse da un bel pezzo, che quelle visite riescano ben gradite al suo padrone; poi, durante una imbandita ricognizione del luogo dove tanti loggiava la cavalleria del rocca e mostrando le feritoie donde i soldati tiravano coi fucili contro il nemico, recita vero antimilitarista Abramo esclama: «Brutta cosa, s’gnur, è la guerra; dovrebbe abolirsi: voi sapite, signur, quanta figli di mamma cadono cu lu core truffato da li palle…». Vi risparmio, o buoni lettori, il seguito di questo lirico discorso, che—manco a dirlo—commuove sempre fino alle lacrime i malcapitati curiosi.

Dopo una mezz’ora di chiacchiere, mentre il visitatore esce dalla porta principale, Abramo lo trattiene ancora un po’ e, battendo in terra il bastone… di comando, esclama: «Signurì, sentite come interloquivano in questo tubo i soldati della rocca». Come ben sapete, o lettori, il patriarcale custode accenna, o intende accennare a quel comunissimo fenomeno di trasmissione del suono nei mezzi cavi, per cui le sentinelle dal loro posto parlavano con le altre segretamente.

Ed al visitatore che accosta ansioso l’orecchio al muro, Abramo, mentre il presago cagnolino fa capriole per l’allegria, ripete la sua frase preferita se non trascurata: «I soldati, dicivendo accusì: Signurì dateme nu cafè».

Il Saraceno

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