Il fidanzamento a Lucera
Un tempo a Lucera, i ragazzi e le ragazze non avevano molte possibilità di conoscersi e frequentarsi prima del fidanzamento ufficiale, anche perché il matrimonio era un affare di famiglia.
Le ragazze vivevano chiuse in casa sotto il controllo rigido dei genitori, con poche occasioni di svago e libertà, senza avere la possibilità di muoversi liberamente; esse uscivano da casa in rare occasioni, come recarsi in chiesa per partecipare alle funzioni religiose, dai nonni, dagli zii o andare a prendere l’acqua alla fontana pubblica. In queste occasioni, poteva succedere che fossero notate da qualche giovane, il quale, considerati i rigidi comportamenti dettati dal costume del tempo, non poteva avvicinarla.
Per fidanzarsi bisognava rispettare alcune regole: il ragazzo, una volta individuata la ragazza, e avendo ricevuto il consenso dei propri genitori, inviava degli ambasciatori, un proprio parente o un amico, a casa della prescelta per chiederne ai genitori la mano. I genitori, dopo aver verificato il volere della ragazza, e raccolte le indispensabili informazioni sul ragazzo e sulla sua famiglia, comunicavano agli ambasciatori le loro decisioni.
Altre volte c’era bisogno di un personaggio che mettesse la “buona parola”, che stabilisse un rapporto tra le famiglie dei due ragazzi, al fine di regolare, in tutti i particolari, il possibile fidanzamento e il matrimonio.
Qui entrava in gioco il portaquaglje, termine che deriva, quasi sicuramente, dell’espressione francese porte-poulet (porta polletto), che indicava chi fungeva da “ruffiano” tra innamorati. Nel nostro vernacolo il termine è stato volgarizzato in quello più intrigante di portaquaglje.
Il portaquaglje, dietro un modesto compenso, forniva informazioni:
- sul ragazzo (se avesse un lavoro, qualche proprietà, se fosse di buona famiglia) ai genitori della ragazza
- sulla ragazza e sulla sua famiglia (se avesse una dote, che poteva essere addirittura visionata) ai genitori del ragazzo.
Questo scambio d’informazioni, se “purtave onóre e dumannave onóre (portava onore e domandava onore)” incanalava la “trattativa” verso un esito positivo.
Indubbiamente, il bell’aspetto, la dedizione alla famiglia, al lavoro e, soprattutto,il mestiere del giovane influenzavano non di poco le decisioni della famiglia della ragazza. Essere artigiano e possedere una bottega, rispetto a un contadino, garantiva alla ragazza un futuro di donna che doveva occuparsi solo dei figli e delle faccende di casa, senza essere costretta ad aiutare il marito nei lavori dei campi.
L’intervento d’u portaquaglje era fondamentale nei casi in cui gli interessati: avessero qualche handicap fisico o superato l’età ritenuta giusta per il matrimonio; fossero vedovi. O nella trattativa si presentassero complicati problemi d’eredità.
In ogni caso, quando le trattative si concludevano positivamente, magari con il consenso della ragazza, in un giorno prestabilito, sotto l’attenta regia degli ambasciatori o d’u portaquaglje, s’incontravano, presenti i due giovani, le rispettive famiglie e parenti stretti per dare il consenso al matrimonio, a “scanso di qualunque ripensamento”. L’incontro terminava con l’impegno a breve di ufficializzare il fidanzamento.
In tempi più vicini, quando le decisioni delle ragazze iniziavano ad assumere importanza, la procedura subì una modifica: l’ambasciatore o u portaquaglje consegnava alla ragazza una foto del suo pretendente e se lei decideva di tenerla significava che accettava la proposta di fidanzamento. In tal caso, il ragazzo poteva fare il passo successivocheconsisteva nell’incaricare l’ambasciatore o u portaquaglje di chiedere ai genitori la mano della ragazza, con tutti i passaggi, sopra richiamati.
Negli anni 50’ e 60’ alle ragazze, complice anche la scolarizzazione di massa, venne concessa maggiore libertà di uscire e anche i riti di fidanzamento subirono profonde modiche.
Il tutto iniziava con il ragazzo che, preso coraggio, affiancava la ragazza durante u strussce (la passeggiata)con le amiche, pronunciando la canonica frase: t’agghja parlà, cagne strade! (ti devo parlare, cambia strada!). Se la ragazza era interessata, rigorosamente accompagnata da una o più amiche, deviava la passeggiata verso un vicoletto, dove il ragazzo le faceva ‘a dechiarazzjóne, al termine della quale, la ragazza, d’obbligo, replicava: «’A resposte a ttrè jjúrne! (La risposta a tre giorni). Era ammessa la variante che i giorni potevano essere cinque o sette.
Se la risposta era positiva, da quel momento, , il rapporto era fatto di incontri fugaci e di nascosto fino al fidanzamento ufficiale, quando il ragazzo si presentava ai genitori di lei e portava, successivamente, i propri genitori, durante un’apposita cerimonia.
Non era inconsueto che però il tutto terminava con la lite e la rottura traumatica del fidanzamento, che coinvolgeva pienamente le famiglie di entrambi i fidanzati, con la regola fondamentale della restituzione di tutti i regali (i rijale) scambiati durante il periodo di fidanzamento
Sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso arrivarono striscianti, anche a Lucera, gli effetti liberatori del ’68 che spazzarono via antiche arretratezze, liberando i ragazzi da tutti i tabù sul fidanzamento.
Oggi domanda e risposta sono affidati ai social e, se la risposta è negativa, immediatamente appare la dicitura “single”.
Lino Montanaro
Per saperne di più
Lino Zicca, Lino Montanaro, Lucera di una volta, Catapano Grafiche, 2021