L'entrata di Manfredi di Sicilia a Lucera nel novembre 1254
Antropologia & Arte,  Memoria,  Storia & Archeologia

L’entrata di Manfredi di Sicilia a Lucera nel novembre 1254

Vi proponiamo un passo molto interessante della cronaca Historia de rebus gestis Friderici II (ed. a cura di Francesco De Rosa, Cassino, 2007), coeva agli avvenimenti, in cui il Principe Manfredi, figlio dell’Imperatore Federico II, il 2 Novembre 1254 durante le dispute con il Pontefice Innocenzo IV decise di recarsi a Lucera, allora abitata dai saraceni, per rinforzare il proprio esercito e chiamare a raccolta i baroni ancora a lui fedeli. Nei passi della cronaca ci sono notizie sul palatium federiciano e su una porta della città che molti fanno risalire a porta Foggia. Buona lettura.

Lettura del brano da parte di Luigi Perna, che ringraziamo.

Poco prima che spuntasse il giorno si misero a cavallo, e giunti a circa tre miglia dalla città di Lucera, il principe pensò che, se si fossero tutti avvicinati ad essa, gli abitanti avrebbero potuto nutrire sospetti su quella moltitudine, anche se non numerosa, e forse ne avrebbero negato l’accesso; se invece fosse entrato solo con due o tre compagni, non c’era dubbio che li avrebbero fatti entrare; e ammesso pure che si fossero rifiutati, gli sarebbe stato più agevole e più sicuro salvarsi con pochi che con molti: pensava infatti che nel caso non fosse stato accolto a Lucera si sarebbe sistemato nel castello di Bibiano, che teneva a sua disposizione.

Spediti dunque in quel luogo tutti quelli che erano con lui, il principe, accompagnato solo da tre uomini, uno dei quali conosceva bene la lingua dei Saraceni, si avvicinò alla porta, dall’interno della quale molti uomini, scelti per custodirla di notte, affermando che dei cavalieri si stavano avvicinando, si riunirono spinti dalla grande preoccupazione di difendere la città, come imponevano le circostanze del momento. Stando dunque il principe fuori la porta e quelli della città all’interno dei bastioni, si avvicinò per primo uno dei servi del principe che conosceva la lingua saracena e disse ai custodi della porta: “Ecco il principe vostro signore e figlio dell’imperatore, venuto a voi secondo i vostri desideri: apritegli perciò le porte ed accoglietelo in città, come avete già promesso con grande ed affettuosa generosità“. Ma poiché essi dubitavano che quello fosse veramente lì, come diceva il servo, e temendo di essere da lui ingannati, il principe per farsi riconoscere si avvicinò ancora di più alla porta, e così fu riconosciuto: resisi conto che si trattava proprio di lui, si davano da fare per aprirgli la porta e volevano mandare subito qualcuno dal marchese al quale Giovanni Moro, come già detto, aveva affidato la città di Lucera e che ne aveva le chiavi. Fu allora che uno di quelli che erano all’interno, mostrando ancora di più la sua fedeltà al principe disse: “Noi mandiamo a prendere le chiavi dal marchese, che però ha ricevuto da Giovanni Moro l’ordine di non far entrare in città né il principe né altri e quindi non consegnerà le chiavi, anzi farò tutto il possibile per impedirgli di entrare: è dunque opportuno che costui entri come meglio può, perché dopo il suo ingresso tutto sarà più facile“.

C’era una conduttura che dalla città portava fuori l’acqua piovana attraverso la porta, tagliandone a metà il limitare in modo tale che, una volta chiusa la porta, della conduttura restava uno spazio così ridotto da consentire il passaggio in città ad un solo uomo carponi. Perciò l’uomo che aveva in precedenza parlato disse: “Entri il principe attraverso l’apertura che è sotto la porta, ed accogliamolo in città nell’unico modo possibile“. Allora il principe, non considerando la vergogna di quell’entrata, ma l’effetto della grande gloria che ne sarebbe derivata; pensando che essa deve essere raggiunta solo attraverso fatiche e dolori; desiderando di essere innalzato da quella vergognosa ma utile umiliazione al trono della grande esaltazione; avendo la sorte spinto ad una situazione tale da essere costretto a procedere non ritto come un uomo ma piegato come un rettile e prostrato a terra; rendendosi conto con grande saggezza che forse questo suo modo di procedere era l’ultima sua umiliazione e portava all’inizio della sua ascesa, balzò giù da cavallo e si preparò a gettarsi a terra per entrare nel cunicolo.

Vedendo ciò i Saraceni, commossi da quella umiliazione grande e incredibile, ma necessaria, dissero: “Dovremmo dunque sopportare che il nostro signore entri in modo così umiliante in città? Abbattiamo le porte, perché entri come si conviene ad un principe“. Perciò con un solo assalto si scagliarono contro le porte, le abbatterono, e dopo aver raccolto all’interno con grande gioia il principe, lo sollevarono da terra e lo portarono sulle loro braccia al centro della città. Attorniato dunque da un’immensa moltitudine di popolo che accorreva per vederlo, il principe, sollevato in alto con tanto onore, doveva affrontare una gran fatica mentre quegli uomini, badando più alla loro gioia che alle sue condizioni fisiche, esprimevano nei suoi confronti i loro attestati di lode con tanto entusiasmo da non rendersi conto della fatica e del soffocamento a cui lo costringevano: perciò, cavalcando con grande difficoltà su un cavallo offertogli in mezzo a quella marea di gente, si accorse di essere scampato ad un pericolo più grave di quello che credeva.

Mentre avvenivano queste cose e tutta la città era in fermento per la venuta del principe, ne giunse notizia al marchese stabilito in quella città da Giovanni Moro, e che abitava nel palazzo reale. Avendo egli udito che il principe si trovava in città, meravigliandosi di come ciò fosse stato possibile, dal momento che era lui a tenere le chiavi di tutte le porte, fece armare subito i Saraceni scelti Giovanni Moro per difendere la città sotto il suo comando, uscì armato dal palazzo e insieme a loro si diresse contro il principe. E mentre questi procedeva verso il palazzo accompagnato da una grande moltitudine di popolo ed il marchese uscito con i suoi armati dallo stesso palazzo gli veniva incontro, giunti in un posto da dove il suddetto marchese poteva vederlo avvicinarsi, subito ci furono grida ed un accorrere di gente verso il marchese per spingerlo a scendere da cavallo e ad andare ai piedi del principe. E quello, stupito e facendo di necessità virtù, subito scese giù e, deposte le armi, si prostrò davanti al principe e gli baciò i piedi; e così il principe fu accompagnato dal popolo al palazzo reale con grande onore e gioia.

Frattanto quelli del seguito del principe, rimasti indietro perché egli, come si è detto, si stava avvicinando alla città soltanto con tre compagni, giunti dopo di lui verso questa, saputo che egli era entrato, si avvicinarono alle porte. Ma poiché le porte, che erano state aperte, dopo il suo ingresso erano state nel frattempo chiuse e rafforzate, quelli che vi stavano davanti non potevano entrare perché i custodi non sapevano e non credevano che fossero parte del seguito del principe: em entre stavano così raccolti davanti alle porte della città, ecco giungere con alcuni dei suoi da Foggia a Lucera il marchese Ottone, il quale, avvicinandosi, vide quei cavalieri che stavano lì davanti, e chiese ad un villano incontrato sulla via mentre scavava un fosso, chi essi fossero. Saputo dal villano che quelli appartenevano al principe e che questi era già entrato nella città, Ottone, molto meravigliato e turbato, scese dal ronzino che stava cavalcano, e montato sul suo destriero che era tenuto alla sua destra, se ne ritornò a Foggia. Avendolo però visto quelli del seguito del principe che stavano davanti alla porta e riconosciuto dal vessillo che egli era il marchese Ottone, gli si scagliarono contro e lo inseguirono coraggiosamente, ma poiché i loro cavalli erano molto stanchi per le fatiche della notte precedente, resisi conto di non poterlo raggiungere, rinunziarono ad inseguirlo e, ritornati davanti alle porte della città, non appena si seppe che essi appartenevano al gruppo del principe, furono fatti entrare e, raggiunto il principe che era nel palazzo reale, gli riferirono che il marchese Ottone era venuto e se ne era tornato via.

Radunato dunque tutto il popolo della città davanti al palazzo reale, il principe, che vi era dentro, affacciatosi ad una finestra che guarda a sud ovest, dalla quale il popolo lo vedeva così come egli vedeva tutto il popolo, tenne un discorso dettato dalle circostanze del momento, esponendo i motivi per i quali si era allontanato dal Sommo pontefice e la sua volontà di mantenere e difendere con forza i diritti del re suo nipote e suoi, le libertà e la stabilità del regno e le sue città: e subito i cittadini si offrirono con le loro persone e i loro averi al servizio e alla volontà del re e del principe e secondo il loro costume gli prestarono fisicamente giuramento di fedeltà e di omaggio in nome del re e suo.

[…]

Nel predetto palazzo reale di Lucera si trovavano le “camere” dell’imperatore Federico, del re Corrado, del marchese Ottone e di Giovanni Moro, nelle quali fu trovato molto oro e argento, vesti, pietre preziose e gran quantitativo di armi. Perciò il principe si diede a distribuire fra i soldati i tesori e i beni trovati in quelle “camere” e a pagare gli stipendi non solo a loro, ma anche a quelli che erano venuti con lui dalle parti di Terra di Lavoro e agli altri che aveva potuto raccogliere da altri luoghi: infatti i suddetti cavalieri teutonici, che Giovanni Moro, come è stato riferito, aveva posto nelle case alla periferia di Lucera, non appena vi giunse il principe, si presentarono a lui per mettersi al suo servizio. Il principe li accolse di buon grado e pagò loro gli stipendi. E molti altri teutonici, che dopo la morte del re si erano sparsi in diverse parti del regno e soprattutto in Puglia, saputo dell’arrivo del principe a Lucera, vennero da lui e furono accolti al suo soldo; e ad alcuni di essi che ne erano privi fornì cavalli ed armi secondo la necessità di ciascuno. Inoltre molti dell’esercito del legato e del marchese, venuti a conoscenza della liberalità del principe, abbandonarono il proprio esercito e si offrirono a lui, che pagava loro gli stipendi, per cui in poco tempo l’esercito del principe si ampliò tanto da incutere terrore a tutta la Puglia.

Alessandro De Troia

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