I riti della morte nella Lucera del passato
Nel passato, a Lucera, la morte di una persona seguiva regole e riti tradizionali da renderli vere e proprie rappresentazioni teatrali.
Innanzitutto, la morte era attesa sempre in casa; anzi, morire nella propria abitazione era un tratto caratteristico della società del tempo. Era considerata quasi sconveniente la morte in una struttura sanitaria; fatto che accadeva raramente perché, a quei tempi, erano pochi quelli che si potevano permettere le spese di degenza in un ospedale.
Prima del trapasso, quando una persona era in agonia, veniva chiamato il parroco per la somministrazione dell’estrema unzione, e le campane delle chiese ne davano l’annunzio con rintocchi diradati. La gente così era informata, con il passa parola, chi fosse il moribondo perché l’intera comunità partecipava a questo momento cruciale del singolo.
Dopo il decesso, lo svolgimento del rito della morte, però, mutava in alcuni punti a secondo delle possibilità economiche della famiglia del morto.
Nelle famiglie benestanti, il defunto, sbarbato, profumato e vestito con abito elegante e scarpe nuove, era posto sul letto matrimoniale (ci poteva restare fino a quarantotto ore) e, dopo, nella bara, ai cui lati erano accesi quattro grossi candelabri affinché non stesse al buio e la sua anima non vagasse a lungo nell’oscurità.
Appena morto, si coprivano gli specchi con lenzuola o coperte per evitare, secondo una credenza popolare, che l’anima del defunto vi rimanesse intrappolata. Anche per impedire che qualcuno vi si potesse specchiare, evitando che l’anima del defunto potesse afferrarne l’immagine riflessa, portando con sé nell’aldilà l’anima della persona viva. Inoltre, si spalancavano le porte e le finestre di casa, affinché le anime dei parenti, ritornando dall’aldilà, potessero fargli visita, e si mettevano a disposizione alcune sedie, per permettere loro di sedersi.
Ai lati dell’uscio di casa erano posti lunghi drappi di tessuto nero, trapuntate d’oro.
La gente era informata del decesso attraverso le campane che suonavano a mmúrte (a morto); mentre, più recentemente si affermò l’usanza di affiggere in determinati punti della città manifesti di annuncio morte e di attaccarne due ai lati dell’ingresso di casa.
La famiglia partecipava alla veglia funebre insieme a parenti e amici, con i quali si discorreva ad alta voce parlando del morto, delle sue qualità e della sua bontà, ricordando momenti ed episodi di vita vissuta; mentre, s’intervallavano invocazioni, pianti, sospiri e grida, ed un continuo andirivieni di gente per dire una parola di conforto ai parenti, recitare un “requiem” e salutare per l’ultima volta il defunto.
Di solito, durante la veglia funebre, intervenivano delle donne, spesso pagate, che piangendo e gridando, esaltavano le virtù del defunto.
Da subito i familiari maschi si facevano cucire una fascia nera al braccio sinistro della giacca o del cappotto, o un bottone all’occhiello della giacca, mettevano la cravatta nera e, se lo portavano, usavano un cappello nero; mentre le donne indossavano un abbigliamento nero integrale, con abiti e calze nere. Questo abbigliamento durava sei anni per la morte del coniuge, quattro per il genitore o il figlio, sei mesi per gli zii, ma vi erano donne che rimanevano abbigliate a lutto per tutta la vita.
Il giorno del funerale, all’ora stabilita, si udiva la campana che suonava ‘a mmúrte, conrintocchi lunghi; dopo il terzo rintocco, arrivava il prete e il corteo partiva dalla casa del defunto, aperto da corone di fiori, dai membri incappucciati della “Congrega” di appartenenza del defunto e dalle orfanelle del convento di Sant’Anna. Seguivano la Croce, sorretta dal sagrestano, il parroco, in cotta e stola, e i chierichetti, che per tutto il tragitto recitavano le preghiere e i canti funebri. Spesso il parroco era accompagnato da altri sacerdoti, il cui numero variava secondo le possibilità della famiglia del defunto.
Poi seguiva il feretro, trasportato su un carro funebre di colore nero, allestito con drappi dello stesso colore e frangia dorata. Il carro era trainato da cavalli neri, con le bardature e i fiocchi da parata. Dietro il feretro c’erano i congiunti: le donne, con i veli neri che coprivano i volti afflitti, e gli uomini, con l’abito scuro. A seguire sfilavano amici e conoscenti. Infine, poteva chiudere il corteo funebre la banda musicale, che alcune famiglie impegnavano affinché il defunto fosse accompagnato al cimitero da struggenti “marce funebri”. Raggiunta la chiesa, il parroco celebrava la messa cantata in latino e, terminata la cerimonia religiosa, il corteo si ricomponeva per raggiungere il cimitero, dopo aver attraversato immancabilmente Ammizz’u lareghe.
Al passaggio del feretro, in segno di rispetto, era consuetudine socchiudere le porte, gli scuri delle finestre e dei balconi delle case, le porte dei negozi e delle officine e sospendere le attività; mentre, in strada tutti si facevano da parte per permettere il passaggio del corteo.
Il corteo si scioglieva all’inizio di Viale della Pace e i non parenti sfilavano davanti ai familiari schierati, per stringere a ciascuno di loro la mano.
Quindi il feretro era accompagnato fino all’interno del cimitero dei soli parenti e la sepoltura avveniva il giorno dopo nella cappella o nel loculo di famiglia.
Questa modalità, per evidenti motivi economici, non poteva essere rispettata sempre in tutto e per tutto. Ad eccezione di quanto era indispensabile, spesso, era seguita solo in parte dalle famiglie meno abbienti.
A Lucera c’era la consuetudine di trasportare a spalla fino al cimitero i defunti le cui famiglie erano prive di risorse; quando non c’erano parenti e amici disponibili, il servizio era a carico delle Congreghe e, soprattutto, di quella “della Morte”. La sepoltura avveniva in un’area dedicata, sotto la nuda terra.
Poiché, spesso, venivano a mancare portantini disponibili, il Comune decise di istituire il servizio di trasporto delle salme, con un mezzo pubblico; un carro messo male che faceva un rumore infernale con le sue ruote traballanti sóp’i chianghètte (sulle basole di pietra).
Pertanto, i lucerini ironicamente denominarono il carro: «u tuppet’e ttuppete», dal rumore che fa chi bussa.
Per rispetto verso chi era morto, i parenti più stretti per i giorni seguenti non potevano uscire di casa, non potevano i fare la spesa e nemmeno cucinare, non potevano fare il bucato e nemmeno stendere i panni. Allora, per consentire di rispettare tutti questi obblighi, i parìnde o ‘a cummare provvedevano alla preparazione d’u cúnze, una sorta di un pranzo consolatore, fatto di pietanze calde, che per diversi giorni venivano recapitate, corredate da posate e stoviglie, a casa del defunto. In tempi più vicini a noi “u cúnze “. era stato sostituito dall’ abitudine di inviare ai congiunti, dando incarico ad un bar, bricchi di caffè o di cioccolato, unitamente a savoiardi.
La tradizione del cúnze si è quasi completamente persa. Così com’è scomparsa quella d’inviare, il ristoro. Oggi ci sono agenzie funebri che a richiesta organizzano anche il banchetto funebre.
Lino Montanaro
PER SAPERNE DI PIÙ
- Lino Montanaro, Lino Zicca, Lucera di una volta, Catapano Grafiche, 2021