Antropologia & Arte,  Memoria

Cibi tradizionali lucerini da strada

A Lucera, una volta, c’erano venditori ambulanti che la sera dei giorni festivi, durante le festività religiose, le sagre e le feste dei partiti, svolgevano la propria attività vendendo cibo di strada, cotto in piccole cucine ambulanti,  chiamata street food, servendosi di baracchini, gli attuali food truck, e anche il tradizione strussce (la passeggiata), poteva diventare un bel pretesto per fare uno spuntino da mangiare in piedi o camminando, oppure seduti su una panchina d’a Ville o comprare cibo da asporto da portare a casa.

Ecco una golosa rassegna sui cibi da strada più amati dai lucerini,  sperando di aprire il vostro armadio dei ricordi e di stuzzicare la vostra gola:

  • PÍDE, RÈCCHJE E ‘MMÚSSE (PIEDE, ORECCHIE E MUSO). È un piatto tipico della cucina povera lucerina, ma in genere di regioni come la Campania, il Molise e anche della provincia di Foggia, quando non si gettava nulla, in tempi di povertà diffusa. Erroneamente si pensa siano tutti pezzi provenienti dal maiale: u píde e i rècchje  sono in realtà del porco, mentre u músse è quello dal vitello. Tipico cibo da festa, si preparava anche in casa, ma era più facile trovarlo nei banchetti delle feste religiose, quando con pochi soldi si compravano le porzioni per far pranzare una intera famiglia. Si preparavadepilando le parti che venivano poi bollite, raffreddate, tagliate in piccoli pezzi e, così lessato,  veniva servito e mangiato freddo con sale e moltissimo limone. A Lucera c’era un venditore ambulante che lo vendeva tutti i giovedì, angolo Via Appulo Sannitica / strada per Biccari. Non poteva mancare che il nostro dialetto confezionasse un modo di dire ad hoc per indicare che in un lavoro non si lascia nulla di trascurato: m’agghja píde, rècchje e ‘mmússe.
  • I SGUAGGHIUZZE. Uno spuntino povero e veloce che piaceva tantissimo ai lucerini per la sua semplicità, particolarmente richiesti perché costavano poco e piacevano tanto. Li preparava all’istante con il suo baracchino messo al centro di piazza Nocelli, Gelarde (Gerardo), il quale invitava a comprarli al grido: «squagghiuzze cavede, squagghiuzze, sò rusecarìlle e cavede». Quello che più invogliava a mangiarli, appena fritti in olio bollente, era l’odore invitante che si propagava per tutta la piazzetta. Era una delizia mangiare nd’o cúppe, il cartoccio a forma di cono, nelle fredde sere d’inverno, questi profumati, croccanti e caldi triangolini di polenta fritta, preparati c‘a faríne ggialle de granedíneje (con la farina di granturco) e semplice aggiunta di sale. Si gustavano bollenti, contenuti in cartocci a forma di cono.Avendo i soldi, si sorseggiava anche il peroncino, una birra Peroni di formato piccolo, chiacchierando del più e del meno con gli amici.L’origine de i squagghjuzze deriva dall’utilizzo del cibo avanzato. In questo caso, la polenta non consumata era tagliata a pezzi e fritta, con l’aggiunta di solo sale.
  • I FÍCHE D’INDÍE. Arrét’a Morte (alle spalle della Cattedrale), quando era tempo, si trovava il venditore di fichi d’india che, con grande capacità tagliava la corteccia del frutto senza che nessuna spina s’infilasse nella pelle delle sue mani. Offriva il frutto, alla cui bontà non si poteva resistere,  per poche lire, invitando gli avventori con «ggevenò àmma tagghjà?». Però se si esagerava a mangiarle e si beveva contemporaneamente molto vino, una stitichezza, che non si scordava facilmente, era assicurata (se strengéve ngúrpe).
  • I CALDARROSTE. Tutte le sere, vecín’a Velardíne, presso la fontana di piazza Nocelli, si alternavano, con i loro banchetti, due venditori chiamati rispettivamente “Trè Bbastóne” e “Cavede Cavede”, i quali vendevano spassatimbe, cicere arrestúte, castagne cavede e salatílle (semi di zucca, ceci e castagne arrostite, lupini). Il secondo era famoso per il grido che lanciava per richiamare l’attenzione: «Cavede e fracete! (castagne calde e marce)».
  • I TURCENÌLLE. Nelle varie sagre che si svolgevano in Villa e Piazza Matteotti,  c’era sempre il baracchino del venditore dei turcenìlle, uno dei fiori all’occhiello della tradizione gastronomica lucerina. Sono piccoli involtini, realizzati con le interiora di agnello o di capretto, il cui nome richiama proprio l’avvolgimento del budello attorno alle interiora, che venivano cotti tradizionalmente sulla brace ed insaporiti in vari modi e mangiati con un panino
  • I BBRASCIÓLE DE CAVALLE. La Sezione del PCI di Lucera ha organizzato dagli anni Cinquanta in poi La Festa dell’unità ed il cuore della festa era rappresentato dagli stand gastronomici dove si poteva cenare con i bbrascióle de cavalle. Fatte con un ripieno di formaggio pecorino, prezzemolo fresco ed uno spicchio d’aglio, erano soffritte con abbondante olio d’oliva e bagnate con il vino Cacc’e Mítte. Dopo che il vino sfumava, al soffritto di carne si aggiungeva la salsa ed il sugo, cuocendo, sssorbiva lentamente il sapore della carne, che così diventa sempre più morbida, fino a sciogliersi in bocca. Anche i bbrascióle erano mangiate con un panino.

Lino Montanaro 

PER SAPERNE DI PIÙ

  • Lino Zicca, Aneddoti di fatti perduti – Quando la politica era passione e anche… divertimento, Catapano Grafiche, 2015
  • Lino Zicca, Lino Montanaro, Lucera di una volta, Catapano Grafiche, 2021

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