Memoria

Le tradizioni della Quaresima e di Pasqua a Lucera

Tanti, tra i nati negli anni 40’ e 50’, hanno ancora un forte ricordo delle tradizioni lucerine d’a Quaresème e de Pasque.
Tutto iniziava con u Merculedì d’i Cènere (il Mercoledì delle Ceneri); nelle chiese si spargeva, sóp’a cape (sulla testa dei fedeli) ‘a cènere, ottenutabruciando i rami di ulivo benedetti la Domenica delle Palme dell’anno precedente.

In questo giorno tutti eravamo tenuti o dejúne (digiuno eucaristico), regola inderogabile che era rispettata in tutte le famiglie lucerine. Durante ‘a Quaresème, anche nei venerdì bisognava rispettare ‘a devezzióne: mangiare di magro, cioè evitare come cibo la carne e i suoi derivati.
I ragazzi, nel periodo quaresimale, erano tenuti a fare i fiurètte (i fioretti) cioè sacrificare qualcosa cui si teneva molto.

La Domenica delle Palme era vissuta tra diverse liturgie: scambiarsi, dopo la Messa, i palme (le palme), portate in Chiesa per la benedizione, come simbolo d’amicizia. Esse, riportate a casa erano appese al calendario di Frate Indovino che stava quasi sempre in cucina oppure su un quadro di un’immagine sacra. Alcuni rami venivano conservati per essere donati a chi sarebbe venuto a far visita durante il pomeriggio.
La domenica delle Palme era anche il giorno in cui ci si sentiva più vicini con gli altri, più propensi ad aiutare, più capaci di amare. Ed era anche il giorno in cui era tradizione fà pace; cioè c’era l’usanza di risolvere reciprocamente ogni divergenza con chi si era in discordia o si era fatte a ssciarre. In particolare le nuore offrivano la Palma alla suocera come un segno di umiltà e promessa di mantenere la pace in famiglia (ogge sò i palme, nnè chijù tímbe de st’ascjarre, tècchete a Palme e damme nu vase).

C’era, inoltre, una consuetudine più antica, che riguardava gli innamorati. Il fidanzato portava dalla chiesa la palma d’ulivo benedetta, e ‘a zite, l’innamorata, la buttava ndo vrascíre, pronunciando il nome del fidanzato, seguito immediatamente dalla formula: Palma bbenedètte, che víne ‘na vote a l’anne, me vole bbène púre auanne? (Palma benedetta, che vieni una volta all’anno, mi vuole bene anche quest’anno?). Se la palma bruciava immediatamente, la risposta era negativa, se, invece, cominciava a scoppiettare sui carboni, il fidanzamento era salvo.

Prima delle vacanze di Pasqua, tutte le scuole organizzavano u precètte pasquale (il precetto pasquale), cioè i ragazzi venivano portati in chiesa per la confessione e la comunione.

Il Giovedì Santo, in un’atmosfera intensa e ricca di spiritualità, c’era la tradizione di jì a fà i Sebbùleche (fare i Sepolcri). A partire da Chjísa Granne (il Duomo), i fedeli visitavano varie chiese (tre, cinque, sette, in ogni caso sempre in numero dispari), per recitare una preghiera e osservare il Sepolcro.

La mattinata di Pasqua, ci si svegliava presto per via dello scoppio delle calecasse (grossi petardi di fuoco d’artificio) che annunciava la resurrezione.
Poi partiva dalla storica chiesa di Sand’Andúne (Chiesa di Sant’Antonio Abate), la processione, che sfilava per le vie e le piazze principali di Lucera, con la statua lignea e policroma di Gesù Risorto, opera di uno scultore di Ortisei in Gardena. La statua era portata a spalla dai componenti dell’Arciconfratenita della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, preceduta dai membri e dalle insegne delle confraternite della città e seguita dalle autorità religiose, civili e militari e dai fedeli. Chiudeva la processione la banda musicale di Lucera che eseguiva brani coerenti con l’evento.
Sui balconi delle strade attraversate dalla processione, erano esposte variopinte coperte di seta, e dagli stessi erano lanciati petali di fiori, entrambi simboli di festa. A conclusione della processione, in Piazza Giacomo Matteotti, tra la Chiesa di Sant’Antonio Abate e la Villa Comunale, veniva accesa l’immancabile, ‘a bbattaríje (batteria pirotecnica).

A Pasquètte (Lunedì in Albis) era il giorno da scampagnate (scampagnata) o Castìlle (fortezza svevo-angioina) che coinvolgeva la quasi totalità della popolazione. Intere famiglie trascorrevano l’intera giornata in perfetta allegria, gustando ogni ben di Dio: a tièlle de patane o fúrne ch’i cuccetèlle d’agnille, i cecurièlle che l’óve e carne d’agnílle, ‘a parmeggiane, e, per i più esigenti, a tièlle d’u tembane. Inoltre, facevano bella presenza i tradizionali dolci di Pasqua: u pizze palumme e ‘a farrate. Prima di tornare a casa molti raccoglievano la famosa ruchèle d’u Castìlle.

Lino Montanaro

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